Negli ultimi anni il legislatore è stato guidato da una visione “punitiva” verso le aziende che ricorrono a contratti a termine; questa visione ha purtroppo comportato un aumento dei contributi previdenziali che le aziende pagano per questi lavoratori. Meritano di essere ricordate due specifiche Leggi in materia.
La Legge 92/2012 (Legge Fornero) che ha introdotto una maggiorazione del 1,4% della contribuzione sulla maggior parte di contratti a termine.
La legge 96/2018 (Decreto Dignità) che ha previsto un ulteriore aumento della contribuzione previdenziale a carico delle aziende nel caso di riassunzione con contratto a termine di lavoratori che avevano già lavorato per la stessa azienda, sempre con contratto a termine. Per ogni rinnovo (cioè riassunzione dello stesso dipendente) la contribuzione aumenta di 0,5% senza limite.
Sono escluse solo alcune tipologie di assunzioni a termine, tra cui quelle indicate nel D.P.R. 1525 del 1963 che elenca una serie di attività stagionali prevalentemente di natura agricola e decisamente poco attuali.
A pagarne le conseguenze sono le attività turistiche che non rientrano tra quelle previste nel D.P.R. 1525 del 1963, cioè tutte le attività turistiche (alberghi, ristoranti, bar ecc…) che non hanno lunghi periodi di chiusura nell’anno o che magari non chiudono proprio, ma che in determinati periodi devono ricorrere a numerose assunzioni di lavoratori stagionali, quindi con contratto a termine per far fronte all’aumento di lavoro dettato dall’afflusso di turisti.
Ad esempio un albergo in una località di montagna dovrà assumere lavoratori stagionali, quindi con contratto a termine, sia nei mesi invernali che in quelli estivi; dovendo per disposizione di Legge (diritto di precedenza) riassumere gli stessi lavoratori che già hanno lavorato presso il medesimo albergo, ad ogni assunzione vedono lievitare il costo dei contributi previdenziali dello 0,5%.
Sembra poco, ma dopo anni e anni di riassunzioni la contribuzione può aumentare anche del 20%- 30%.